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Adriano Olivetti

Aggiornamento: 5 feb 2021

Portraits of Extraordinary People

 

Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nell'indice dei profitti? O non vi è, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? Adriano Olivetti era convinto di si.

Adriano Olivetti

Industriale, intellettuale, urbanista, editore, Olivetti diede vita, nel secondo dopoguerra, ad una delle avventure imprenditoriali più esaltanti del Novecento. Egli non si limitò a realizzare un sogno industriale, ma un progetto sociale.


Rilevata dal padre una modesta fabbrica di prodotti da ufficio, un’officina artigianale che impiegava 20 operai, grazie ad una visione imprenditoriale audace ed innovativa Olivetti riuscì in breve tempo a conquistare i mercati mondiali. Alla base di questa visione risiedeva l’idea che produttività e gratificazione dei dipendenti fossero aspetti correlati, ed il profitto dovesse essere reinvestito per il benessere della comunità.

Industriale, intellettuale, urbanista, editore, Olivetti diede vita, nel secondo dopoguerra, ad una delle avventure imprenditoriali più esaltanti del Novecento. Egli non si limitò a realizzare un sogno industriale, ma un progetto sociale.

Grande appassionato d’Arte ed Architettura, Olivetti partì da una nuova concezione dell’ambiente di lavoro: desiderava che gli operai potessero svolgere le proprie mansioni in spazi ampi e luminosi, dando vita ad una comunità nella quale fosse possibile vedere e comunicare con gli altri, sentirsi parte di un paesaggio.


Si trattava di una visione rivoluzionaria: se prima l’ambiente di lavoro era progettato in funzione della produzione presentandosi come un luogo chiuso, disadorno, sovraffollato, per molti aspetti simile ad un carcere, gli stabilimenti Olivetti ne ridefinirono radicalmente la concezione.


Ad occuparsi della progettazione dei nuovi complessi industriali furono chiamati i più geniali architetti degli Anni Cinquanta, che realizzarono strutture perfettamente integrate sotto il profilo urbanistico, caratterizzate da ampie vetrate che consentivano agli operai di godere della bellezza del paesaggio rurale circostante.


Furono realizzate ampie biblioteche accessibili ai dipendenti anche durante l’orario di lavoro, e la fabbrica si convertì rapidamente in luogo di incontro e promozione culturale. La sede di Ivrea era frequentata da intellettuali del calibro di Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini; Renato Guttuso realizzò un affresco per adornare la parete di una delle officine; il direttore d’orchestra Luigi Nono diresse un concerto in una sala allestita accanto alle officine alla presenza di una eterogenea platea ove gli operai sedevano accanto ai dirigenti; furono organizzati festival cinematografici, mostre di pittura, ed altre iniziative il cui obiettivo era accrescere la cultura dei dipendenti Olivetti.


Anche la composizione dei quadri dirigenziali e la selezione del personale furono profondamente influenzate dalla visione di Adriano Olivetti, e per l’azienda di Ivrea lavorarono figure prestigiose quali Geno Pampaloni, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi e Tiziano Terzani. Quest’ultimo avrebbe ricordato la sua esperienza alla Olivetti nel suo ultimo libro, “La Fine è il Mio Inizio”, affermando: “L’Olivetti non era soltanto la fabbrica per fare le macchine, era la fabbrica per fare le macchine per costruire una società in cui l’uomo vivesse a sua dimensione”.


I risultati ottenuti grazie alla straordinaria visione di Olivetti furono sorprendenti: nel corso del primo decennio la produttività dell’azienda crebbe del 500%, mentre le vendite conobbero un incremento pari al 1300%. Adriano Olivetti, accantonando l’arcaica concezione dell’operaio quale “uomo robotico”, aveva posto al centro del suo progetto l’ “uomo reale” ed il suo coraggio fu ripagato ampiamente, consentendogli di mettere a tacere i numerosi detrattori che in lui vedevano esclusivamente un folle utopista destinato al fallimento.


L’enorme successo ottenuto dall’azienda richiese ben presto l’apertura di nuovi stabilimenti, ed anche in quell’occasione Adriano Olivetti ebbe modo di dimostrare coraggio e coerenza. A differenza degli altri grandi gruppi industriali dell’epoca, anziché avvalersi di manodopera immigrata dal meridione, egli decise di edificare nuovi complessi industriali nel Sud Italia, zona storicamente depressa e scarsamente industrializzata, in modo tale da permettere alla forza lavoro residente di non abbandonare la propria terra. Anche in quel frangente le intuizioni di Olivetti si rivelarono vincenti: in brevissimo tempo la produzione del nuovo stabilimento di Pozzuoli, in provincia di Napoli, superò quantitativamente e qualitativamente persino quella della sede di Ivrea. La fine della precarietà, il salario stabile, le eccellenti condizioni di lavoro, rappresentarono uno stimolo formidabile per gli ex disoccupati dell’Area Flegrea, consentendo all’azienda di ottenere risultati straordinari.


Del resto la Olivetti costituiva una realtà unica nel panorama imprenditoriale dell’epoca: il salario minimo era superiore in media del 20% rispetto alla base contrattuale, l’azienda metteva a disposizione dei dipendenti servizi sanitari, servizi sociali, e provvedeva al rimborso delle spese di trasporto. Le dipendenti in maternità godevano di un permesso retribuito della durata di 9 mesi (oggi, mediamente, ne vengono concessi 5) senza riduzioni salariali (mentre attualmente vengono applicate consistenti decurtazioni). La Olivetti, inoltre, dispose la costruzione di asili nido in prossimità degli stabilimenti.


Il mondo dell’imprenditoria non guardava con favore alle innovazioni introdotte da Adriano Olivetti, percepito come imprenditore sovversivo, ritenendo che l’adozione di un modus operandi che prevedesse la concessione di simili privilegi ai dipendenti potesse acuire il conflitto Capitale – Lavoro, all’epoca particolarmente acceso. Fu così che la Olivetti si attirò l’ostracismo di Imprenditoria, Politica, Gruppi Bancari (all’epoca direttamente o indirettamente collegati alla Politica) e Mass Media.


Fra gli episodi più eclatanti vi fu l’ “anatema” di Andrea Costa, Presidente di Confindustria, che invitò i Confindustriali a boicottare i prodotti dell’azienda di Ivrea. Ciò avveniva nel momento in cui la Olivetti aveva iniziato a concentrare il lavoro di ricerca nel settore dell’elettronica, arrivando a produrre il primo calcolatore elettronico, l’Elea 9003. Si trattava di un progetto particolarmente ambizioso, che avrebbe potuto garantire alla Olivetti ed all’Italia un ruolo di primo piano nel panorama della nascente Industria Informatica.


Con l’improvvisa morte di Adriano Olivetti, avvenuta il 27 febbraio del 1960, e il successivo smembramento dell’azienda, il sogno di coniugare capitale e lavoro per favorire il progresso sociale svanì definitivamente.


Cosa rimane oggi della straordinaria esperienza umana e imprenditoriale di Adriano Olivetti?


Osservando gli attuali scenari economico-imprenditoriali verrebbe spontaneo rispondere che forse i suoi detrattori non erano del tutto in errore nel definirlo un utopista. Si tratterebbe, però, di una valutazione abbastanza superficiale. Il merito principale di Adriano Olivetti risiede nell’aver dimostrato che esiste un’altra via all’imprenditoria. Che un’azienda è innanzitutto composta da uomini. Che la crescita di un’azienda può procedere parallelamente a quella di coloro che ne fanno parte. Che un ambiente di lavoro confortevole e stimolante, un equo trattamento contrattuale ed il benessere dei dipendenti, favoriscono una maggiore produttività.


Quella di Olivetti è una visione antitetica rispetto a quella imperante nell’attuale società globalizzata, in cui l’individuo ha visto ridefinire la propria identità: non più uomo, ma “risorsa umana”; non più membro di una comunità, ma microcosmo isolato senza radici né identità. Una visione antitetica, dicevamo, addirittura “eretica” secondo alcuni, ma sulla quale varrebbe la pena riflettere. Forse il senso più profondo dell’esperienza umana ed imprenditoriale di Adriano Olivetti è proprio lui a svelarlo, con disarmante semplicità, in questa sua riflessione : “Le autentiche forze spirituali che rimangono eterne nel tempo e immutabili nello spazio, da Platone a Gesù, sono l’amore, la verità, la giustizia e la bellezza. Gli uomini, le ideologie, gli Stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici, non potranno indicare a nessuno il destino della civiltà”.

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